Alessandra Mauro intervista Luciano D'Alessandro
Dal volume: Alessandra Mauro, Lo sguardo da sud - interviste con fotografi del sud Italia L'Ancora, Napoli, 1999
Luciano D'Alessandro vive in un punto molto bello di Napoli, dove si può vedere tutto il golfo. Le stanze della sua casa sono piene di libri e le pareti di foto del passato: personaggi noti della politica, amici e no. Mi mostra, sul suo tavolo, un orologio dove i numeri sono gettati casualmente sul quadrante e un computer dove, come "after dark", ha riprodotto ancora il golfo di Napoli, come se fossimo affacciati lungo il parapetto della sua strada.
Mi parlavano proprio oggi di questa idea che circola di una Biennale della Fotografia che vorrebbero costituire a Napoli. Beh, potrebbe essere una buona idea..
Tutto potrebbe essere buono, se fatto per la città. Non è chiaro come viene costituito, chi sono le persone. Insomma, come comitato scientifico si propongono certi personaggi che non c'entrano. Ad esempio Roberta Valtorta. Dovrebbero prima costituire un piccolo gruppo napoletano, e poi in caso chiedere ad altri di venire a lavorare qui. Passiamo alle tue domande. Cosa mi vuoi chiedere?
Non ho delle vere domande da farti ma piuttosto, una chiacchierata sui rapporti profondi tra questa città e la fotografia. Rapporti e legami che tu conosci bene.
Certo, questo si è sempre detto: chi nasceva fotografo a Napoli ci vedeva due volte. era un po' gioco ma faceva riflettere. Tradotta meglio era un'attenzione maggiore alla realtà. Alla realtà che appariva. Del resto, che cos'è questo lavoro se non fare testimonianza. Ma quando la testimonianza diventa anche partecipazione, allora, nel caso di Napoli, diventa dolore. Anche perché Napoli è stata distrutta. E' stata distrutta ... Quando andavo a scuola, al Genovesi, nel 1948, era un bel vivere , era bella la città. O forse io ero solo ragazzino. E mi sembrava bella.
Io sono stato a Milano, sono stato con Bianciardi con Lucas, con Dondero, in via Brera ma l'atmosfera era completamente diversa.
Vogliamo andare a ritroso, partendo dal periodo della guerra?
Negli anni dopo la guerra, alla ripresa del paese, in effetti a Napoli c'era una situazione molto interessante. Vivevano personaggi come Carrubba, Ermanno Rea, i fratelli Sansone, Giancarlo Scalfati che in qualche modo erano sensibilizzati, avevano preso coscienza nei confronti di grandi giornali come Life o Time. Durante la guerra queste cose non arrivavano. Non si poteva leggere Dostojevski, non si poteva ascoltare il jazz ed era difficilissimo addirittura leggere Hemingway. Se ci pensi, il fascismo è stata proprio una strana cosa: sono stati soltanto vent'anni - una virgola nella storia - ma in grado di bloccare lo sviluppo di questo paese, in un momento preciso in cui, probabilmente, si viveva il passaggio da un modo ad un altro di essere e si aveva bisogno di tutto quel supporto culturale cosmopolita fortissimo che veniva da fuori. Tutto ciò è mancato. Appena vent'anni sono bastati perché il paese si ripiegasse su se stesso. Questa naturalmente è la mia opinione di antifascista.
Tornando a noi, dopo la guerra personaggi molto importanti come critici di cinema, di arte, ecc. tra cui il più importante di tutti Paolo Ricci - che aveva soltanto una rubrica su arte e teatro sulle pagine napoletane dell'Unità ma che in qualche modo prendeva sotto la sua ala protettrice la città e cominciò a mostrare questi strani eventi. E' stato lui il primo a raccontare di Cartier-Bresson, anche se Cartier-Bresson comunque lavorava già da prima ma con il fascismo non si sapeva nulla. E prendendo le mosse da questo e probabilmente da Federico Patellani si cominciò a fotografare Napoli. E la cosa fu straordinaria perché in qualche modo sembrava che essere nati a Napoli significasse possedere una marcia in più per sensibilità rispetto al resto del paese.
Ecco, dopo la guerra era venuta fuori questa cosa proprio sul filo di Life e Look e l'iniziatore da noi è stato Federico Patellani, e poi altri. E tutto comincia al sud...
Roma si è dovuta inventare la Dolce Vita che è senz'altro un momento folclorico che secondo me entra solo di straforo nella storia della fotografia e poi, neanche tanto.
Il Sud diventa il terreno d'osservazione privilegiata, dove c'era un gruppo di fotografi che hanno cominciato una tradizione che, anche se tra alti e bassi e con personalità diverse, hanno comunque avuto una determinata tensione visiva. Perché quesa città era distrutto dai bombardamenti, con una certa anarchia e probabilmente anche un maggior senso di trasgressione rispetto ad altre zone d'Italia - come Milano ma anche Palermo.
Ricostruire un paese significa anche ricostruire le coscienze, mettere a posto la cultura non conformista e che discute con le altre generazioni, bisogna scrivere articoli, libri e in questo senso la fotografia ha un grande ruolo. Ad esempio, c'era la rivista Cinema Nuovo che dimostrava un agrande sensibilità e aveva degli inserti fotografici sorprendenti. I primi grandi reportage sull'Italia sono apparsi lì: c'era nella rivista sempre un inserto fotografico, firmato da un fotografo molto conosciuto, come Sellerio, Chiara Samugheo, Ermanno Rea e altri. Guardando gli inserti di Cinema Nuovo si capiva cosa era il paese a quei tempi: la periferia romana che poi è stata di Pasolini, il degrado napoletano delle baracche di via Marina, il "mandrione" con le sue prostitute e così via. Era quello il momento della fotografia sociale che indagava il tessuto di questo paese per riscattarne la condizione.
Ed era soprattutto, assolutamente, una questione di sinistra e quasi di lotta d classe - uso provocatoriamente questo linguaggio che ormai non si usa più e che a pronunciare queste frasi tutti scappano... . Perché serviva per mettere di fronte ai responsabili una certa condizione di broglio, di stallo. Se permetti - non se se te ne sei accorta - Siamo parlando della denuncia.
Insomma, cominciarono a fotografare Napoli e anche molto bene. Io sono il più piccolo di questo gruppo e rispetto ad esempio a Carrubba dovrei avere 6 o 7 o forse anche dieci anni di meno, rispetto a Rea forse solo 4 o 5. Comunque ero il più piccolo e andavo a rimorchio e non sapevo bene cosa avrei fatto da grande ma la cosa mi affascinava molto.
A 17 anni, quando presi la licenza liceale, andai a lavorare all'Unità. Ma non fotografavo, scrivevo e solo in seguito ho preso la macchina fotografica in mano. Dove trovavano posto le nostre foto? Su tutti i giornali di sinistra, i bollettini sindacali, e su Il Mondo di Pannunzio. Quest'ultimo giornale è stato fondamentale. Il Mondo di Pannunzio ha avuto un ruolo fondamentale per quel che riguarda l'osservazione sociale. Per parlare della fotografia di quei tempi, dobbiamo parlare di quel periodo storico, la ricostruzione dopo la guerra. Era l'unico non comunista ma radicale, dell'area liberale, ma straordianriamente aperto e prendeva le foto e le pubblicava nel modo che sai. Cominciammo a viaggiare e ricordo che Il Mondo pagava i fotografi napoletani 5.000 lire invece di 3.000 - ma non bisognava dirlo - perché portavano fotografie dall'estero. Infatti, nel 57 ero già in Unione Sovietica, al festival mondiale della gioventù e ho delle foto pubblicate di quell'epoca. Carrubba Aveva inventato un sistema di "scambio" delle foto molto divertente. Lui ed altri partivano per l'estero e facevano fotografie della Spagna allora franchista, portando lì foto dall'Italia che vendevano a El Pais, era il giornale della Catalogna comunista. Le foto fatte in Francia venivano vedute in Germania. Le foto fatte in Germania venivano rivendute in Italia, e così via.. Io scherzando dicevo che erano "i magliari della fotografia" ma molto più gentilmente, L'Espresso di quei tempi - "L'Espressone", per capirsi " - li chiamò i Pellegrini del Sole. Queste persone viaggiavano producendo in un circolo che potenzialmente non finiva mai anche se comunque, tutto finiva nelle mani di Mario Pannunzio. A quei tempi lui insegnava fotografia giornalistica a questi fotografi di sinistra: tra l'altro gli unici bravi al mondo perché - sia detto per inciso - non si è mai visto al mondo un bravo fotografo di destra.
Sono questi gli inizi un po' romantici del fotogiornalismo a Napoli. Siamo negli anni '51 e '52. Si vedeva la Leica, si imitava Cartier-Bresson e certamente anche Smith e si faceva del reportage. E la fotografia che si vendeva al Mondo veniva chiamata "stradale" perché era fatta per la strada e mi pare di sapere, o per lo meno non è mai stato smentito, che si è trattato del primo episodio italiano di fotografia. Da questo poi è successo che Carrubba si è trasferito a Roma, Ermanno Rea ha smesso di fare il fotografo ed è stato per tanti anni caposervizio a Il Giorno di Milano, Scalfati ha continuato a fare fotografia ma poi ha fatto servizi fotografici per Vogue o altro e i fratelli Sansone sono diventati fotografi parlamentari lavorando molto sulla politica.
Poi, veramente, il nostro non era un gruppo ma persone che si incontravano, si conoscevano, si sfaldò e io stesso cominciai a lavorare all'estero, in giro per il mondo e poi per dieci anni per L'Espresso.
Questa storiain qualche modo corrisponde, ma leggermente in anticipo, con quanto è successo a Milano, col gruppo di via Brera - Lucas, Dondero, Mulas e gli altri. Questi sono stati i due gruppi italiani, di cui senz'altro il primo è stato Napoli. Poi, naturalmente Sellerio che lavorava benissimo a Palermo ma in modo solitario.
Episodio Cartier-Bresson sulle barricate.
Cosa è rimasto di quel periodo?
Ho fatto un'esperienza qualche mese fa. Ho messo nel mio computer tutta la biblioteca. E' stato un gran piacere rivisitare gran parte dei miei libri, i doppioni, i libri più rari, quelli a cui sono molto legato, ecc.. Ebbene, sfogliando gli almanacchi stranieri come il British Journal of Photography o alcune riviste francesi o tedesche, ecc. Mi sono drammaticamente reso conto che il lavoro italiano è ben poca cosa rispetto a quanto fatto all'estero, specialmente dagli americani. Ora, per gli americani forse può essere diverso ma quel che mi meraviglia è che i francesi hanno lavorato enormemente eppure hanno lo stesso peso culturale che abbiamo noi sulla schiena e quindi non so se è una questione di passato culturale incombente o dovremmo lottare tutta la vita per liberarci da questo peso per poter fare un gesto rivoluzionario come la fotografia.
Naturalmente molte cose buone sono state fatte e molte sono venute proprio qui dal sud. Ma questo sud sconta comunque sempre un terribile retaggio: sud vuol dire poco danaro, mancanza della grande editoria e soprattutto mancanza del grande mercato giornalistico...
Ed è ancora così?
Certamente. Pensa che io a Napoli ho pubblicato un solo libro, il resto sono sempre andato fuori. Ricordo che al nord, in quegli anni, c'era un atteggiamento molto particolare nei confronti dei napoletani. Io non avevo un accento marcato ed ero ascoltato e tollerato Ma, veramente, andare a Milano con l'accento significava essere considerato un emigrante schifoso.
Chi ha fatto un lavoro egregio, in quegli anni, è stato senz'altro Lanfranco Colombo. Si procurava soldi coinvolgendo fondazioni straniere e faceva molte cose come ad esempi"The Concerned Photographer", una cosa molto grossa. Erano pochi soldi però era comunque un'opportunità. Io a quei tempi feci "Dio a Napoli": Cosa significava la religione in questa città e scoprii che oltre la religione, significava anche un concetto di cassa mutua, di assicurazione:ci si affidava alla madonna non potendo fidarsi dello stato. Con Colombo ho fatto "Gli esclusi" e non è poco. Due argomenti belli tosti, per l'impegno e alla crescita di questa nazione.
Parlami di come è nato "Gli esclusi", il tuo lavoro sul manicomio di Nocera Superiore
Il mio lavoro sui manicomi è stato un po' prima di Basaglia ma, anche, un po' dopo Goffman e la sua esperienza inglese. Era il 1965 - ho lavorato per tre anni nell manicomio di Nocera Superiore. Devo ammettere che non ero interessato ad aprire i manicomi ma quello che volevo realizzare un lavoro sulla solitudine dell'uomo. La grande solitudine ontologica mi affascinava molto e volevo verificare se la solitudine mia personale era una condizione generale o cosa. In realtà ne è venuto fuori un lavoro politico, dovuto ai tempi e all'estrema drammaticità di quella situazione. Il malato mentale non produce reddito, non lavora e quindi va messo in un ghetto. E in questo senso, il manicomio si inquadrava abbastanza bene nella situazione generale che era poi di scarsa conoscenza: per vent'anni non si era conosciuto niente del nostro paese. Nel ventennio fascista nn si capiva nulla dell'Italia e in verità, la realtà era altrove. A questo risveglio culturale ha contribuito la fotografia che in sé non serve a niente ma aiuta e svela i problemi e ti serve a capire.
In quei tempi, si partecipava ognuno con i propri mezzi al riscatto di quel mondo. Certamente, si può discutere sugli errori di impostazione, sui naufragi, sulle delusioni però vedi, anche se oggi politicamente sono arrivato insieme ad altri a registrare il fallimento di un progetto raccomanderei comunque quell'itinerario ai tutti, a tutte le generazioni future.
Ma come, tutti celebrano la fine dell'ideologia comunista e tu raccomandi quello stesso cammino....
Certamente. Abbiamo vissuto una vita straordinaria: non solo eri eroe, ma addirittura lottavi contro il mondo e contro il potere e questo poteva inebriarti. Eri un eroe e combattevi conto il potere. Che meraviglia! Avevi solo ragione, non potevi sbagliare, sollevavi il mondo e andavi dappertutto vivendo senza soldi. Scherzi a parte, era un itinerario comunque fantastico: abbiamo preso sulla testa tutti i mattoni del mondo ma siamo ancora salvi e lo siamo perché se è vero che tanti mattoni sono caduti sulla nostra testa, eravamo comunque ben corazzati. Ho avuto compagni di strada formidabili e grandi incontri fraterni di solidarietà in una sorta di partigianeria durata molti anni.
Questi gli anni 50 e poi sono arrivati gli anni 60. Dunque, io nel 65 già lavoravo per l'Espresso e ci sono stato dieci anni smettendo quando la rivista è diventata più piccola e le fotografie troppo piccole mi sembravano impossibili. Gli anni 70 hanno visto il riscatto di tutti i fotografi di sinistra che si sono visti ampiamente riconosciuti in una sorta di grande omaggio giornalistico dai settimanali non solo italiani ma del mondo. Della fotografia ancora non se ne sapeva granché. Nei giornali, c'erano i soliti litigi con i grafici per i tagli delle immagini comunque, le inchieste erano molto seguite e noi andavamo dietro in queste inchieste. Se a Napoli si fotografava l'apertura dell'anno giudiziario, significava riprendere i giudici nella loro protervia e del potere. Si fotografano i politici, anche col grandangolo. Era un punto di vista critico. Fino al 70 è stato così. Poi, il partito comunista ha cominciato a subire un crollo verticale e il punto di riferimento ha cominciato a scomparire o almeno a vacillare anche se il lento riflusso è continuato per molto tempo.Sai, devi tener conto che esistevano due i modi per avvicinarsi al partito comunista e all'ideologia comunista: un modo sbagliato e uno giusto. Senza vie di mezzo. Il modo giusto era che tu pensavi certe cose e queste cose le vedevi riconosciute in quel modo di pensare. Poi c'erano gli imbecilli che non avevano nulla in cui riconoscersi e che semplicemente aderivano in modo superficiale all'ideologia. Questi ultimi li lasciavi perdere ma quelli che ho conosciuto io erano persone che avevano già loro un'idea, un pensiero autonomo e che si riconoscevano in questa cosa che era il partito.
Siamo negli anni della tua esperienza a Il Mattino...
No ancora no. E' presto. Prima vorrei parlarti dell'esperienza de L'Occhio, nel 1979, qundo io divento il primo Photo Editor italiano.
L'amministratore Delegato del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, insieme a Roberto Ciuni, viene a casa mia per assumermi. Già c'erano stati dei corteggiamenti ma io ero una zitella, volevo star da solo. Mi offrono una cifra considerevole e addirittura promettono di assumere mio figlio al Mattino... Insomma, L'Occhio voleva essere un quotidiano popolare di grande impatto, come avviene per molti quotidiani inglesi, ma fatto a Milano. Insomma, accetto. Vado a Milano, sto in un residence per sette mesi e comincia a crearsi questa redazione di gente proveniente da altre testate.
Ora, cominciano le prime difficoltà perché i giornalisti non erano abituati a lavorare con un Picture Editor. Nelle altre testate si preoccupavano degli articoli ma anche delle foto e quindi nessuno si rivolgeva a me ma andavano direttamente in pagina con le immagini. Per me quindi era molto frustrante: nessuno mi chiedeva niente e cominciavo a domandarmi cosa ci facessi lì... Poi le cose sono un po' migliorate. Mi hanno mandato in Inghilterra a studiare i quotidiani inglesi per sei mesi e poi altri sei mesi in Germania ed arriviamo verso il quinto, sesto, settimo mese di gestazione. pensa che avevamo fatto 42 numeri zero, una cosa del genere, per un costo di non so quanti miliardi. Al ritorno dal mio giro inglese e tedesco, andai da Maurizio Costanzo e mi dimisi prima che il giornale uscisse dicendogli che secondo me non ce l'avremmo mai fatta perché il pubblico italiano vuole altre cose - il calcio, le donne - mentre il pubblico inglese si interessa degli intrighi di corte e quelli a sfondo sessuale... L'Occhio poi durò un anno, non di più. Sai, era tutto così diverso.. Sui giornali inglesi trovi rione per rione il gioco delle bocce... e questo fa vendere moltissimo perché la gente trova il propri nome sul giornale, e così via. E sono attaccati al giornale come grande elemento di comunicazione, di contatto, all'interno di tutta la nazione e in Germania è lo stesso. Ora, se tu viaggi in Italia, da nord a sud, ogni quaranta minuti cambia il paesaggio, il sapore del pane cambia, come il vino e l'olio sa di un'altra cosa. Per non parlare della lingua... Come mai possiamo fare a comunicare tra di noi? Non parliamo poi dei tratti somatici, così differenti. Probabilmente anche in Inghilterra cambiano delle cose ma più o meno... Del resto la testimonianza sono i milioni di copie venduti di questi giornali.
Così andai via ma non riuscii a dimettermi, perché non vollero e mi mandarono al Mattino, dove c'era Ciuni. Eccomi tornato a Napoli, in un giornale che conoscevo, con grande piacere. Nel novembre il direttore ha la fortuna che gli scoppi un terremoto sotto i piedi. Ecco, quello è stato un grande momento, giornalisticamente parlando, per la mia vita. Un momento molto interessante che non si è più verificato
Come si svolgeva, prima del terremoto, il tuo lavoro quotidiano?
Io venivo dalla fotografia, dalla strada,ero abituato a litigare con i grafici per le fotografie. cercavo, in maniera equilibrata, di commissionare servizi, piccoli e grandi, su Il Mattino Illustrato a parte lo sport.Pensa, ho pubblicato Marc Riboud su Napoli, lo stesso servizio che aveva realizzato per Geo. L'avevo accompagnato e, dopo la pubblicazione su Geo, gli ho chiesto le foto per Il Mattino. Sceglievo le foto, sceglievo il fotografo lo contattavo, gli davo appuntamento e con il grafico - che a quel tempo era Daniela Rovelli (ora fa Il Sole 24 Ore) e insieme impaginavamo le foto.
Quindi, l'impaginazione era fatta in tre: grafico, photo editor e fotografo
Sì, certamente. Erano tutti contenti, senza aggressione, prevaricazione. E questo è durato un po'. Venne il Papa a Napoli e d'accordo con il direttore mettemmo su un'équipe con 12 fotografi - qualcuno anche da Gamma. 12 fotografi sul Papa a Napoli e a Pompei : qualcosa che non si era mai visto in Italia. Studiammo il percorso del papa per un reportage unico che pubblicammo in un numero speciale del supplemento. Io non fotografavo ma c'erano tutti i fotografi: Uliano Lucas, Fornaciai, Marialba Russo, ecc. Siamo nel 1980: i rulli sviluppati al giornale la sera, il direttore in laboratorio a guardare i provini e a scegliere. Era un bel momento, non pensi?
Un esperimento innovativo...
Io dirigevo - anche se tra virgolette, da fatto esterno - la Fotosud, l'agenzia fotografica che all'interno del Mattino forniva le fotografie di cronaca al giornale. Mi volevano molto bene. Si tratta di bravi professionisti e io lavoravo a fianco a loro, andavo da loro a scegliere le foto e con loro c'era un rapporto di stima, assolutamente non di concorrenza. Ancora adesso siamo amici. Continuo ad avere un grande affetto e un ottimo rapporto con i ragazzi di Fotosud. Pensa che ancora adesso ho le chiavi e se mi viene voglia di stampare le foto, al mattino presto io posso andare, aprire e stampare.
Anche loro ti debbono moltissimo
Forse sì, e comunque me lo dicono. Tutti li trattavano molto male, come autisti. I girnalisti li spostavano per la città per fargli fare servizi o a volte neanche, solo per farsi accommpagnare. Loro invece sentono la città, hanno con Napoli un rapporto molto intenso. Riescono a captare la città, le sue mille situazioni. Hanno un archivio sulla città unico. Certo, la fretta non sempre ha fatto fare delle foto fantastiche - anche perché spesso erano condizionati da qualche giornalista ignorante - ma comunque il loro archivio è bellissimo e poi hanno una conoscenza del mezzo incredibile.
Insomma, l'esperimento del Mattino era decisamente avanti coi tempi.
Una cosa simile, anche se differente, era quel che avveniva a Il Tempo di Roma che, anche se lontano da questi reportage, aveva comunque un servizio interessante. Una o due automobili con un giornalista e un fotografo viaggiavano per la città con un radiotelefono sintonizzato sulla polizia. Le due macchine, spesso, arriviavano prima della polizia e il giornalista faceva la sua indagine, il fotografo le sue foto e si faceva il reportage.
In questa situazione è arrivato il terremoto. Una sera, eravamo al giornale e alle 19, 27 - almeno mi pare - di quel 23 novembre, ci fu il terremoto. Alle prime notizie tutti partirono per S. Angelo dei Lombardi e gli altri posti. C'era un fotografo a Salerno, Giovanni Liguori, molto bravo, i quattro di Fotosud, c'ero io, e chiunque era fotografo a Napoli, era ufficialmente invitato da noi a recarsi sul luogo del terremoto a documentare e noi gli avremmo comprato le fotografie al ritorno.
Non puoi capire: avevamo un materiale immenso. Il giornale è uscito per mesi con sedici pagine in più ed era fatto veramente dalla parte della gente e questa era la cosa più interessante. E' stata una grande esperienza. Pensa, sul terremoto c'erano 100 inviati e solo 25 restavanoin redazione a turno. Negli altri servizi - l'estero, lo sport - c'era il minimo indispensabile tutti se ne fottevano, prendevamo le agenzie e facevano il giornale. Tutto il grosso era sul terremoto.
E' andato avanti così per almeno tre mesi. Un'esperienza molto forte, giornalisticamente e alla fine di questo periodo, pubblicammo un numero speciale de Il Mattino Illustrato.
Qual era la risposta, sia a livello cittadino che più in generale in Italia
Dunque, il giornale ha venduto anche 450 mila copie. L'aeronautica ci aveva messo a disposizione gli elicotteri, lavoravamo anche con il supporto dell'esercito e quando non si poteva più passare perché gli aiuti bloccavano le strade, andavamo con gli elicotteri.
Arrivano giornalisti da tutto il mondo e da tutta Italia e noi li accoglievamo a braccia aperte, nel senso che li portavamo con noi, ci parlavamo, li introducevamo.
Quell'anno partecipammo tutti al World Press Photo e devo anche avere da qualche parte le menzioni speciali... .
E poi?
Poi, va via Ciuni - era il periodo della P2 - il Mattino cambia direttore e viene un suo vice, l'attuale direttore dell'Agenzia Italia, Franco Angrisani. Con lui il giornale viene gestito in maniera lineare, senza grandi picchi. Io stavo in una stanza senza sapere che fare. Dopo un po' ho dato le dimissioni. Tutti dicevano che ero pazzo ma io ho voluto andare via lo stesso. Avevo 49 anni, ero giornalista e pensavo che non potevo continuare così, senza fotografare e ho passato cinque anni a Parigi lavorando per Libération, altri giornali, ho fatto mostre e altre cose. Gli anni 80 sono stati un po' bui per tutti.
Siamo ai giorni nostri. Sei tornato da Parigi a Napoli
Sì. Sai, come ti dicevo prima, sfogliando la biblioteca c'è un po' di delusione se si comparano i reportage fatti in altre nazioni. Mi capita spesso di pensare a una cosa. Esistono fotografie degli emigranti al loro arrivo a Ellis Island, dove abitavano, il lavoro minorile, tutto questo fotografato in America, dai grandi autori americani ed esistono invece pochissime foto degli emigranti che partono, anzi quasi niente. Qualche fotografia la fece Giovanni Verga. E questo ti dice assolutamente di come il mezzo sia migliorato ma anche di come il mezzo fotografico in quanto documento sia qualche cosa che solo lentamente e con molto ritardi è arrivato in Italia. Sì, c'è un minimo di documentazione sulla breccia di Porta Pia ma si vede poca roba.. Sai, in America, in Francia, in Germania la usavano ma da noi era diverso. Pensa, le missioni fotografiche, la DATAR negli anni '80 sulla Francia. C'era stata, ancora prima, su commissione del governo francese la missione eliografica, l'illuminazione dei monumenti di notte. Tu valla a trovare in Italia una situazione di questa portata... Il governo americano aveva fatto nel momento della depressione la Farm Security. Proprio questo concetto di campagna fotografica non c'è da noi. Dobbiamo andare al Conte Primoli ma non era una cosa usuale ma mancava comunque la fondamentale intenzione di raccontare una storia. Ecco, non c'era progetto.
Progetto e, come dicevi prima, tensione sociale
Certo. Ora, ai giorni nostri io mi chiedo, e ti chiedo, qual è l'argomento che interessa, dove sono le tensioni. Vuoi vedere che la cosiddetta sinistra al governo ha stemperato tutto? Allora preferirei dire che Napoli in questo momento vive un momento abbastanza straordinario dovuto senz'altro a Basssolino e a tutto il resto e che questo non è solo un'operazione di facciata come dicono i detrattori. Ecco, a me sembra che la gente ora abbia riscoperto il proprio orgoglio nei confronti della città e siccome i napoletani sono dei pazzi furiosi, tutto quanto hanno dentro e lo buttano fuori. Come sempre a Napoli, c'è una creatività che probabilmente era stata frustrata ai tempi del grande degrado. Ad esempio, mi dispiace se il Napoli va in serie B. A me del Napoli non importa niente ma per la città non è bene.
A proposito, mi viene in mente la foto di un giovanissimo Ferlaino in un tuo libro su Napoli con la didascalia "giovane imprenditore".
Sì, il responsabile di questo disastro della serie B. Ma sai, la città è fatta di tante cose, anche di squadra di calcio.
Ma se la città è così viva, a maggior ragione dovrebbe essere stimolante fare il fotografo oggi a Napoli, non credi?
Penso di sì. Non mi riguarda più tanto perché dopo 43 anni non ho più voglia di fotografare. Io ora ho diritto di vivere la dolcezza che in quei tempi non ho vissuto. Io ho fatto un itinerario che mi fa essere l'uomo di oggi, con durezze e intransigenze ma anche con tenerezze incredibili. E poi conservo tutte le mie curiosità.
Ma probabilmente fare il fotografo è ancora molto bello anche se non a tutti piace stare dalla parte del vincitore. E' più eroico stare dalla parte del perdente. E poi l'indagine fotografica deve avere una forte sottolineatura, deve essere sempre all'interno di una contraddizione. Probabilmente è bello fotografare Napoli adesso. Del resto, lo strumento è tale (la macchina fotografica) che se tu hai un momento irripetibile di vita, devi coglierlo. Forse sì, per questo il fotogiornalismo è particolarmente interessante e forse lo è anche adesso, a Napoli.
Stavo rivedendo il tuo libro Vedi Napoli del 1964 dove associ immagini di estrema povertà con i ritratti della città. Zavoli nell'introduzione accenna al tuo diario privato che tenevi quando fotografavi e dice che sulla copertina del diario c'era la scritta da non pubblicare.
Io scrivo continuamente, scrivo solo e a volte fotografo. Scrivo, e scrivevo prima, mentre e dopo la fotografia.Io trovo più forte la scrittura dell'immagine a patto che la scrittura abbia una sua dimensione ma l'immagine ha un'immediatezza che non ha la scrittura. Quindi usavo la fotografia per verificare cosa avessi scritto.
Finiamo il viaggio a ritroso?
Sì. Con il passare degli anni cambia anche la fotografia.Perché non dovrebbe sfuggire ai tempi che corrono? Negli anni 90 le cose sono diverse. Non so cosa sono questi anni. Si, forse lo so politicamente ma lo so meno in fotografia. Rispetto molto chi fa ricerca, con qualsiasi mezzo, su se stesso, su un argomento ma sono molti, molti anni, che non incontro più un fotografo che passi del tempo, mesi, a volte anni, a fare un certo tipo di lavoro perché convinto che quel lavoro è la strada da seguire: sul carcere, sui bambini...
A questo punto mi responsabilizzo un poco. E' come se uno come me, o come altri, non avesse tramandato un bel niente, non avesse lasciato un patrimonio, una modalità di comportamento da seguire non perché quel comportamento sia per forza giusto ma perché ha portato alla pubblicazione di libri, a un cambiamento di visione... Diciamo che per il mio lavoro, avrei potuto in qualche modo, insieme agli altri, influenzare un modo di vedere.
Probabilmente avremmo dovuto fare più scuola. ma non so, cosa avrei potuto fare di più. Io stavo sempre per strada, dormivo negli aeroporti, seguivo l'attualità, non potevo mettere su una scuola.
Ma lasciami dire ancora una cosa. Non esiste una fotografia del sud ma buoni fotografi e cattivi fotografi. Non è vero che è esistita una scuola napoletana della fotografia. C'era un gruppo di intellettuali che ha influenzato la città - il gruppo di Chiaia: Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Peppino Patroni Griffi, Raffaele La Capria - e che poi si è perso ma queste persone si vedevano, comunicavano, scrivevano. Così per la fotografia, All'inizio c'era quel gruppo ma non è una questione di scuola, assolutamente no. Oggi quel che mi manca è la solidarietà di un tempo, i compagni di percorso. E' importante scambiarsi l'affetto, la solidarietà. Questo un po' mi manca. A quei tempi era necessario per vivere. Anche adesso lo è però ora nessuno lo sa.