Luciano D'Alessandro

L'ago della bussola di Luciano D'Alessandro gli indicava tutte le volte il sud, e lui ha sempre guardato a Mezzogiorno, verso tutti i Sud del mondo. Capri, la sua Napoli, la Puglia, la Sicilia e poi ancora più giù: la Turchia, fino alla lontana Cuba.

 

Lo fa sempre, con la sua Leica, come testimone delle realtà delle sofferenze che incontra, dando a tutte la dignità della rinascita e del riscatto. In questi luoghi, da reporter, non cerca mai il colore locale, il folklore. Ed anche quando si muove nella sua città non inquadra mai nel mirino la napoletanità. Nemmeno è un fotografo rapace, affascinato dall'effetto: “La fotografia – dirà - può fare cose incredibili, nel senso di cogliere momenti ‘efficaci', basta essere dei mascalzoni”. D'Alessandro, al contrario, è ossequioso della gente, dei loro sguardi, spesso rassegnati, di uomini vinti, vuoi per contingenze economiche e sociali, vuoi per accadimenti naturali, quale fu il terremoto dell'Irpinia del 1980, quando il fotografo si trovò sui luoghi distrutti del cratere come picture - editor del quotidiano napoletano Il Mattino. D'Alessandro scopre presto, giovanissimo nel 1956, il suo territorio di elezione - come sono stati definiti i confini geografici della sua poetica - quando in una stradina di Gragnano fotografa un uomo che siede avvilito, forse scorato in un attimo di rinuncia, mentre si copre gli occhi con la mano. Una bimba gli sta accanto, e guarda fuori dall'inquadratura. È l'immagine madre che cercherà poi sempre, idealmente in ogni altro suo scatto. “Ho fatto una foto - disse riferendosi a questo suo disoccupato - e dopo, per tutta la vita, ho cercato sempre quella”. È stato un fotografo dentro perché è sempre tra gli uomini, nel loro mondo, nelle loro esistenze, per cercare palpiti di dignità e testimoniarli. Inizia con Vedi Napoli che aveva solo ventuno anni. Presenta i bassi della città, e poi Identici tuguri in altri Sud del mondo, e lo fa senza cedere al colore perché i bassi erano indigenze, angustie esistenziali. Quei bassi in cui - fa dire Eduardo alla sua Filumena Marturano – in estate non si respira dal calore, perché la gente è tanta, e in inverno il freddo fa sbattere i denti. Dove non ci sta luce nemmeno a mezzogiorno. Vedi Napoli fu un “libro duro, di osso”, come lo definì Sergio Zavoli: “Non semplici tessere del visibile quotidiano - spiegò - ma polemica, ammonimento, prova documentale”. Così come erano state prove che accusavano le immagini del colera dell'anno prima, del 1973, che mostrano una città dolente, ferita, mortificata a cui il vibrione aveva tolto ogni antica e nobile fierezza.

Questo suo voler essere dentro le cose mostra un desiderio di partecipazione, e questo guardare ravvicinato si trasforma presto in un progetto ambizioso, condiviso con Gianni Berengo Gardin. L'idea era quella di effettuare dieci indagini fotografiche senza ossessioni catalogative, ma con quella partecipazione che nei due fotografi è soprattutto il riflesso di un impegno ideale di una militanza politica. Dentro le case è il primo atto di questa commedia umana, segue poi il Dentro il lavoro, l'anno dopo nel 1978. Ma gli altri progetti rimasero tali. “Abbiamo sempre avuto l'idea che il compito della fotografia - ha ricordato Berengo Gardin - dovesse essere quello di documentare la situazione sociale, politica ed economica senza pretendere di spingerci nel terreno dell'arte, in particolare delle sue forme più avanzate dell'arte contemporanea. La fotografia doveva porsi al servizio della società, soprattutto dei settori più emarginati, sfruttati, abbandonati”.

L'obiettivo della sua macchina fotografica - è stato detto – s'immischia, e denuncia: “Il lavoro che può e dovrebbe liberare l'umanità dal bisogno - scriveva il sociologo Gianni Giannotti presentando la ricerca sul lavoro - ha bisogno a sua volta d'essere liberato dalla gabbia infernale costruita con l'intreccio di forze produttive sempre più disumanizzate”. Gira il mondo per l'Espresso, Time, LifeStern o il Daily Telegraph ed altre testate, ma ogni occasione è buona per tornare a Napoli. D'Alessandro è fotografo che combina la passione e l'impegno politico con i suoi reportage di taglio sociale. Quale circostanza migliore della Festa Nazionale dell'Unità del 1976 negli sterminati spazi della Mostra d'Oltremare che testimoniano ancora le velleità colonialiste del regime fascista. La Festa ebbe un po' il senso di un rito di passaggio, di rottura con il passato, perché toccò ai militanti intervenire su un quartiere della città ormai degradato restituendogli una nuova vita. D'Alessandro seguì tutto e documentò il prima e il dopo. Attilio Colombo parlò di “catarsi collettiva”, Enrico Berlinguer, invece, di scommessa contro i luoghi comuni su un popolo fatto soltanto di fannulloni, di incostanti e di disperati. D'Alessandro lavorò con entusiasmo e passione. “Le sue fotografie - scrive Roberto Lacarbonara nella monografia Luciano D'Alessandro l'ultimo idealista, edizioni Postcart - sono veri e propri riscatti fotografici, nel senso duplice di un ritorno sui luoghi prima e dopo gli interventi di bonifica. Ma soprattutto nel senso di una dimostrazione tangibile della forte presa della città, dell'orgoglio e della fierezza di un popolo interno”. Qui lo storico incontro tra Eduardo De Filippo e Fidel Castro nel padiglione dedicato a Cuba che presentò alcuni scatti di D'Alessandro realizzati nel 1971 quando l'ago della sua bussola gli indicò quest'altro Sud, l'isola caraibica, che fotografò a dieci anni dall'invasione americana della Baia dei Porci. Il fotografo napoletano setacciò l'isola con sguardo sereno e appassionato. Tagli di luce netti, contrasti, movimento di corpi, occhi di bambini adolescenti: gioia povera e pura. Riprende la laboriosità di questa gente. La fotografia non può mentire, e D'Alessandro da fotografo giura di dire sempre la verità. Vuole farsi testimone di tutte le verità, specialmente di quelle taciute. E quale mondo è tenuto più segreto di un'istituzione totale o negata, come un manicomio? Un luogo che non ha finestre, perché non si possa vedere fuori, ma neppure guardare dentro, ammesso che la società, prima di Basaglia, avesse sentito questa esigenza.

Con Gli esclusi – Fotoreportage da un istituzione totale del 1966, D'Alessandro viola questa istituzione segreta. Inizia ad aprire una breccia, e comincia a mostrare quanto nessuno aveva saputo o voluto immaginare. Fondamentale la conoscenza dello psichiatra Sergio Piro che gli aprì le porte della Clinica Psichiatrica Mater Domini di Nocera Inferiore. Il fotografo la frequentò puntualmente per anni e presto trovò il coraggio di fotografare. Le sue sono immagini silenziose. Il dolore è imbavagliato. Gli sguardi fermati annegano nelle nebbie del nulla. E poi tutta la bestialità e l'inumanità delle condizioni in cui erano costretti gli ammalati. Caduta l'inviolabilità del manicomio, la denuncia di D'Alessandro fu seguita da Berengo Gardin e Carla Cerati a Gorizia (Morire di classe del 1969 ) e da Gian Butturini a Trieste (Tu interni... Io libero del 1977 ) e poi ancora da altri. Si disse, a ragione, che la fotografia contribuì a chiudere i manicomi. La legge che prende il nome di Franco Basaglia del 1978 aveva trovato nella fotografia un efficace sostegno. "Mi resi conto - disse D'Alessandro - che l'unica strada da praticare era quella della denuncia durissima, denuncia da fare in termini sociali, politici e umani". Alla sua morte nel 2016, i figli Fabrizio e Paolo hanno affidato il suo archivio fotografico allo Studio Bibliografico Marini. Un patrimonio ricchissimo: tremila stampe fotografiche eseguite dall'autore, circa 80.000 negativi in bianco e nero e duemila diapositive a colori. "L'intento - dice Adele Marini - è creare con l'archivio D'Alessandro un catalogo generale, gestito da un software, per rendere fruibile tutta la sua opera, così che questo "pellegrino del sole", come fu chiamato, continua a viaggiare mostrandoci sentieri interrotti e percorsi alternativi ".