Quando l'immagine denuncia

Barbara Pianca - Superando.it, 11 febbraio 2008.

Un'intervista con due veri e propri maestri della fotografia mondiale, Luciano D'Alessandro e Gianni Berengo Gardin, che alla fine degli anni Sessanta furono i primi in Italia ad aprire le porte dei manicomi con le loro immagini, rivelando realtà di degrado e discriminazione prima inimmaginabili

In questa intervista abbiamo l'onore di ospitare due importanti esponenti della fotografia mondiale, come Luciano D'Alessandro e Gianni Berengo Gardin.
D'Alessandro ha 73 anni, Berengo Gardin 76. Rispondono tutti e due alle nostre domande con vitalità, determinazione e gentilezza. Li abbiamo contattati perché volendo analizzare la rappresentazione fotografica della disabilità di oggi, occorre certamente confrontarsi con quella di ieri.
Ieri, quando i fotografi cominciarono a immortalarla, era più o meno il 1968. In quel periodo di subbuglio culturale e sociale, lo psichiatra Franco Basaglia voleva chiudere i manicomi (la sua proposta si concretizzò nella Legge 180/78), mentre l'opinione pubblica era ancora all'oscuro della situazione.
D'Alessandro e Berengo Gardin pubblicarono allora due libri fotografici che per primi in Italia aprivano le porte dei manicomi, rispettivamente Gli esclusi e Morire di classe, entrambi del 1969, dove l'impegno di denuncia civile che caratterizza gli scatti coincide con il periodo storico che tali opere rappresentano.
I due fotogiornalisti, attivi dalla seconda metà del novecento, hanno collaborato con le principali testate italiane ed estere. D'Alessandro è stato anche redattore fotografico del «Mattino» di Napoli, ha realizzato numerosi libri e campagne fotografiche in Francia, Stati Uniti, Cuba, Russia e nel nostro Paese.
Berengo Gardin, invece, considerato dalla rivista «Modern Photography» tra i trentadue migliori fotografi del mondo, ha collaborato con l'industria, ma si è principalmente dedicato alla realizzazione di libri, pubblicandone oltre duecento.
Le loro opere sono conservate nei più importanti centri culturali del mondo, tra cui il Museum of Modern Art di New York, la Bibliothèque Nationale e la Maison Européenne de la Photographie di Parigi.

Com'è nato il desiderio di raccontare la disabilità in un periodo in cui quasi nessuno ancora ne parlava?
«Nel 1956 fotografai un disoccupato di Napoli. Da allora ho fatto sempre la stessa foto, il tentativo di fissare in uno scatto la solitudine profonda dell'uomo.
Una decina d'anni dopo stavo cercando altre immagini per rappresentarla. Avevo pensato a carceri, caserme, finché ho incontrato il professor Sergio Piro che mi ha introdotto alla vita nei manicomi. Per il professore, la presenza di un artista tra i pazienti era una sorta di ''ergoterapia''. Per me, una volta iniziato il reportage e frequentati assiduamente gli ospiti, la questione non è stata più solo quella di rappresentare la solitudine. Si è aggiunto, forte, il desiderio di riscattare l'esclusione sociale, denunciando le condizioni inumane in cui versavano i malati. Stavo facendo un lavoro politico».

Cosa si pensava a quel tempo della disabilità psichica?
«Non se ne parlava. La gente ignorava la situazione. Mi sono trovato di fronte un ''deposito'' di uomini e di donne. Regnavano l'abbandono, la sopraffazione, la violenza, le camicie di forza, l'elettroshock».

Qual è stata la sua prima reazione?
«Ho dovuto affrontare un sentimento di rifiuto, perché mi identificavo con loro e mi faceva male accettare che una situazione del genere fosse vera. Poi la professionalità ha vinto. Li ho osservati a lungo prima di sentirmi pronto a scattare immagini che rappresentano lo star solo dell'uomo e allo stesso tempo fanno denuncia politica dell'ambiente in cui egli vive la solitudine. Un luogo di sporcizia e bruttura».

Quale accoglienza ebbe Gli esclusi?
«Quando il libro uscì non passò inosservato. Fui il primo al mondo a mostrare i manicomi. Guadagnò in breve un centinaio di recensioni, le foto terrorizzavano o interessavano molto, si gridò allo scandalo, come se dalle mie immagini fosse sorto il problema. Certo, stiamo parlando di un periodo storico in cui il sentire sociale era molto vivo, le persone si identificavano nel gruppo e reagivano alle ingiustizie».

Oggi i manicomi non ci sono più. Però lei ha scritto che Gli esclusi sono coloro che rimangono ai margini del meccanismo produttivo perfetto della nostra società. In questi termini ci sarebbero ancora foto di denuncia da fare oggi?
«C'è l'immigrazione che non riesce a trovare pace, il Sud che vive senza fabbriche, la camorra… Una fotografia non risolve un problema ma lo svela, aiuta a capire. Io faccio sempre la stessa foto, cerco un uomo solo. Tutto poi dipende da come mi metto di fronte a quell'uomo, se per un attimo sono lui che soffre».

Oggi gli scatti de Gli esclusi sono solo una testimonianza o hanno ancora una propria modernità?
«Le due cose insieme. Cambiano le situazioni e gli uomini, ma non la condizione umana â€“ morte vita amore. La scommessa della fotografia è quella di tentare di essere un linguaggio universale, dalla Patagonia al Polo Nord. La grande difficoltà è nel creare le sintesi: con uno scatto provi a raccontare tutto…».

Condivide questa riflessione: «Oggi siamo bombardati da immagini shock televisive e non proviamo più emozioni forti di fronte ad esse»?
«La comunicazione è sempre la stessa se chi la fa rispetta l'evento che racconta, ma oggi è cambiata la ricezione. Pochi si indignano di fronte alla condizione umana. Probabilmente la colpa è degli anziani che hanno lasciato un mondo terribile. Credevo che le cose potessero cambiare, ho vissuto l'agio di un'identità collettiva, di una speranza di cambiamento insieme».

Che effetto fanno oggi le immagini de Gli esclusi a chi le guarda per la prima volta?
«Mi viene in mente di aver notato che gli operai che hanno montato una mia recente mostra personale a Roma [Luciano D'Alessandro, 1952-2002, 7 novembre-18 dicembre 2006, Villa Medici di Roma, N.d.R.] hanno per lo più ignorato le fotografie del manicomio e si sono soffermati su delle altre. L'argomento è duro, è un atto d'accusa della nostra ignavia».

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