Dal manoscritto del nipote Riccardo Gualino

"Alla fine della guerra sono legati i primi ricordi dei nonni. Quando la vita acquistò un minimo di normalità cominciammo ad andare regolarmente a casa dei nonni, tutte le domeniche, a pranzo. Vigeva una regola, che si mantenne: noi due piccoli eravamo sempre a tavola con loro, anche se erano presenti ospiti più o meno importanti. Era un fatto normale e noi così lo consideravamo. Benedico questa saggia usanza dei miei nonni, che ci abituavano alla convivenza con gli adulti, e non ci obbligavano a una separazione umiliante, in tavole riservate ai bambini. 
A tavola di mio nonno, la domenica, sedevano persone a volte illustri: ricordo la presenza di Lionello Venturi, di Sibilla Aleramo, una signora dallo sguardo molto triste e che a me sembrava, molto noiosa, dei coniugi Sakaroff, grandi ballerini, lui russo e lei tedesca e bellissima, di Paolo Rossi che era imparentato con mio nonno, ne aveva sposato una nipote,  e di tanti altri, pittori, artisti, scrittori e intellettuali. Quasi mai uomini d'affari. Molto tempo dopo mi sarei domandato e gli avrei domandato il perché di questo fatto. Mi rispose che di uomini di affari ne frequentava molti, ma nel suo ufficio. A casa vedeva solo i suoi amici, le persone che gli erano care. Il confino era stato un setaccio attraverso il quale erano passate poche persone. Pochi uomini di affari, gli domandai? Mi rispose con un sorriso amaro, scuotendo la testa.
Dicevo che la domenica, tutte le domeniche, sedevamo a tavola con gli adulti. Eravamo oggetto di una stretta osservazione sul nostro comportamento, sulla nostra educazione, come si diceva allora, ma eravamo dei bambini molto buoni e molto tranquilli. Quando avemmo l'età incominciammo anche a intervenire nella conversazione, facendo le nostre osservazioni. Mio nonno si divertiva molto e rideva spesso con noi.
Rammento che raccontai una volta una barzelletta la cui protagonista era una donna la quale, non ricordo più la storia e neppure l'umorismo della stessa, alla fine, completamente nuda giunge alla caverna di un eremita in cima a una montagna e, ansimante gli dice qualcosa. La donna sbuffa per la fatica e l'eremita la prende per un treno. Non so dire in che cosa consistesse il divertimento ma ne causò uno e grande a Lionello Venturi il quale si mise a ridere e a piangere allo stesso tempo. Il nonno pure, rideva e fece osservare a Venturi che io non potevo aver capito la storiella, il che era probabilmente vero perché la barzelletta doveva essere di un'oscenità clamorosa.
Mia nonna invece che era di una pruderie estrema, fingeva di osservare con attenzione un punto della tovaglia e di spazzare via le briciole di pane che vi si erano accumulate.

Mio nonno era un nonno affettuoso e molto presente. Mia nonna pure, ma aveva un temperamento bizzarro, che non arrivavamo a capire bene. Era una donna fuori dal comune. Per la sua stranezza guardavamo a lei con un certo timore. Ci volle molto tempo, l'età adulta, perché comprendessi per bene la sua natura.

Mio nonno ci capiva bene e lo comprendevamo perfettamente. Il rapporto con lui era semplice, privo di difficoltà. Ho pensato spesso a ciò. Posso dire che mio nonno, pur nella eccezionalità del personaggio, era un uomo normale, i cui sentimenti erano quelli di un uomo normale. Mia nonna navigava per acque più tempestose e si era adagiata in una tranquilla e silenziosa stravaganza.
L'ambiente a casa dei nonni, la loro sollecitudine, l'interesse del nonno per noi, per le nostre necessità, per ogni idea che ci passava per la testa, interesse sincero e profondo, resero la nostra vicinanza a quegli anziani feconda e felice. Ricordo ancora il nonno che, vicino a me, mi osservava mentre disegnavo con delle matite colorate, che mi dava consigli e che salutava i miei scarabocchi come fossero quadri di un grande artista. La prossimità con la nonna, con la sua natura bizzarra, con i suoi riti domestici e le sue stravaganze, pure essa ebbe un benefico effetto sulla nostra formazione.

La vita del resto era inondata di tranquillità e di luce. Credo che essa sia stata un periodo disteso e felicissimo, soprattutto dopo il periodo oscuro della guerra. Le nostre giornate scorrevano serene. Vivevamo con i nonni e con i piccoli animali che li accompagnavano in un ambiente al tempo sobrio e sofisticato.
Mia nonna era accompagnata dai suoi canarini che la accompagnavano in ogni viaggio, in una grande gabbia coperta da un telo perché restassero tranquilli durante gli spostamenti. La gabbia poi, una volta arrivati, era posta all'aria aperta. Quei canarini trillavano sempre, il loro canto costituiva una sorta di colonna sonora della nostra vita. Si accoppiavano allegramente, giunto il momento. Il loro accoppiamento era fecondo. Passavo ore ed ore a osservare il minuscolo nido, le piccole uova che covavano e che poi si schiudevano nella bambagia lasciando posto a esseri minuti e implumi. Mi riusciva incomprensibile che le madri a volte divorassero i loro piccoli e una volta aprii la porticina della gabbia e li liberai tutti. I poveri animaletti, prigionieri da generazioni non sapevano che farsene della libertà e se ne stettero immobili guardandosi intorno e spostandosi in brevi voli. Furono tutti catturati, meno uno che il gatto di casa mangiò soddisfatto. Mia nonna non si dava pace e accusava ora me, ora qualcun altro, di aver lasciato la gabbia aperta. Ma io avevo preso gusto alla cosa e ripetei l'impresa liberando i conigli che erano in una conigliera e divertendomi a rincorrerli e ad afferrarli per le orecchie che fuoruscivano dall'erba alta.

I nonni avevano anche un minuscolo cane maltese che si chiamava Stellina, una cagnolina succeduta a una lunga serie di suoi simili. Quando mio nonno era giovane, in un'epoca della sua vita, in cui aveva atteggiamenti lievemente dannunziani, aveva avuto diverse generazioni di levrieri. Poi si era convinto che questi animali erano molto stupidi e aveva scoperto i maltesi, dei quali si era innamorato. E non uso questo termine a caso, si trattava di una vera passione, e non esiste immagine di mio nonno senza un maltese in braccio. Dedicò a uno di loro, Toy, un capitolo intero di Frammenti di Vita. Leggendo il carteggio dei miei non si può trovare una sola lettera nella quale non venisse nominato uno di questi animaletti, nella quale non si scambiassero informazioni sulle loro condizioni di salute."