Confessioni di un sognatore: introduzione di Angelo d'Orsi

La vitalità è il tratto fondamentale che emerge da questo bell'inedito di Riccardo Gualino, questa straordinaria figura di sognatore dell'imprenditoria, finalmente, da qualche anno uscita dall'oblio. Sono stati pubblicati saggi, si sono fatte riedizioni di testi, per esempio delle sue memorie già note, e dimenticate, Frammenti di vita (Aragno, Torino 2007), sono stati realizzati documentari e mostre. Ora le Confessioni di un sognatore arrivano a implementare, rafforzare e rilanciare questa piccola Gualino Renaissance, che può aiutarci non soltanto a conoscere meglio il personaggio, ma a mettere a fuoco un modello di imprenditore oggi se non del tutto scomparso, divenuto rarissimo, e destinato comunque ad essere scacciato dal firmamento della New Economy, dell'ultraliberismo, del finanz-capitalismo. Quando ciò sarà avvenuto – e i tempi sono prossimi – quando ci si imbatterà nel nome di Gualino si potrà esprimere curiosità, forse stupore, ma, chissà, magari, nella mente di qualcuno, potrà affacciarsi il proponimento di trarre ispirazione da un uomo che fu una sorta di replica, nel nostro tempo, dell'uomo totale dell'Umanesimo. Imprenditore, finanziere, collezionista, mecenate, impresario teatrale, produttore cinematografico, scrittore, e straordinario organizzatore culturale. 

La sua straordinarietà si può desumere da una frase che si legge nelle prime righe di questo testo: Riccardo Gualino si attribuisce, senza false modestie, “una lungimirante visione del futuro”. Può essere irritante il fatto che sia lui stesso ad affermarlo, ma una qualche ragion d'essere sussiste: se badiamo a una delle possibili definizioni di “politica”, come scienza o arte di guardare lontano, ossia di prospettare gli esiti dei propri atti, le conseguenze di ciò che accade, per nostra o altrui volontà, o per gli accidenti della sorte (un esempio a caso: una pandemia…), a prescindere poi dall'esito, credo che si possa concordare con Gualino. 

In lui, come uomo d'affari, e come uomo di cultura, v'era questa dote, che per tanti suoi contemporanei, sodali del mondo della banca e dell'industria, e più in generale membri dell'élite, appariva una inaccettabile zavorra, un rischio permanente, e in fondo una fuoruscita da quel mondo, in cui ogni spesa era vista come un investimento, e nelle visioni di Gualino, non sempre si poteva intravvedere il successo. Troppo grandiosi i suoi progetti, troppo inconsuete le sue idee: troppo lontano si spingeva la sua immaginazione. E questa discrepanza, che fu alla fine una delle cause della caduta in disgrazia dell'imprenditore e dell'organizzatore culturale, era tanto più forte ed evidente in un contesto come quello piemontese, in cui da Quintino Sella a Luigi Einaudi, si teorizzava prudenza, accortezza, riflessività. La borghesia appariva sovente timorosa se non addirittura pavida. A Torino, del resto, era in campo il prototipo di quel tipo di borghese, nella persona di Giovanni Agnelli: il confronto/scontro fra i due non fu soltanto quello tra due modelli di imprenditorialità, tra due filosofie del lavoro e dell'impresa, ma tra due mondi culturali e antropologici. Alla pacatezza sorniona di Agnelli, alla sua prudenza calma, corrispondeva, sull'altro fronte, l'estro creativo, l'amore per la sfida, di Gualino: un confronto che cominciava dal loro rapporto con il territorio. Agnelli costruì la sua azienda territorializzandola, fino a realizzare una sorta di duplice identificazione della città con la Fiat e della Fiat con la città, avviando un processo che avrebbe sì contribuito a fare di Torino una moderna capitale europea, per dirla con Antonio Gramsci, ma nello stesso tempo ponendo le basi per il suo declino futuro, il prevedibile esito delle one company town. Tutt'altro l'orientamento di Gualino, esplicitato in un'altra frase programmatica e auto-elogiativa di queste memorie: “la vastità delle mie concezioni, per le quali l'Italia appariva loro un troppo piccolo campo per me”. Al di là dell'enfasi – un tratto che emerge un po' in tutti gli scritti del Nostro - che si spiega anche con la necessità sua di costruire una sorta di apparato di apologia, dopo le sue vicende finite quasi tutte malamente, da quelle teatrali a quelle politiche, la ratio principale, a mio modo di vedere, risiede nella volontà dell'autore di lasciare un messaggio ad posteritatem

Il messaggio può esser letto in questi termini: osate. Anzi, provando ad adattare la famosissima risposta di Immanuel Kant alla domanda “Che cos'è l'Illuminismo?”, ecco la risposta kantiana “Sapere aude!”, che egli stesso traduce liberamente così: “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”, adattata a Gualino potrebbe diventare: “Facere aude”. Banalmente si potrebbe definire Gualino un “uomo del fare”. Ma nel fare, come ogni pagina di questo suo memoriale conferma, è compreso il sognare, il guardare lontano. E dunque il “Facere aude” potremmo tradurlo, scimmiottando Kant, con un “Abbi il coraggio di osare”, perché il “fare” di Gualino è sempre stato un osare, un mettersi in corsa senza conoscere la distanza da percorrere, senza una sicura percezione degli ostacoli da affrontare, senza la certezza di arrivare al traguardo. In questo senso, il messaggio del testo è un invito a seguire non già le sue orme – irripetibili, in una situazione storica radicalmente differente, con basi di partenza difficilmente paragonabili alle sue -, bensì a raccogliere il testimone della sua temerarietà. Osare fare, osare gettare il cuore oltre l'ostacolo, osare bruciare i vascelli alle nostre spalle. 

Angelo d'Orsi. Introduzione a Riccardo Gualino, Confessioni di un sognatore