A 70 anni dalla publicazione di "Se questo è un uomo"

Sono trascorsi settant'anni dalla pubblicazione del libro "Se questo è un uomo"di Primo Levi rifiutato, subito dopo il secondo conflitto mondiale, da grandi case editrici come Einaudi, Edizioni di Comunità e probabilmente Mondadori, e pubblicato da De Silva, piccola casa editrice torinese, nel 1947.
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Riproponiamo qui di seguito l'inizio del discorso inedito di David Grossman per l'assegnazione del Premio Internazionale Primo Levi - che verrà conferito allo scrittore israeliano oggi, 6 novembre, a Palazzo Ducale a Genova - pubblicato ieri sul domenicale Robinson di Repubblica:

"Le opere di Primo Levi mi accompagnano da quando ho letto per la prima volta ''Il sistema periodico''. Mentre leggevo sentivo che, pagina dopo pagina, il libro di questo autore, di quest'uomo, analogamente ad altri tre o quattro, mi indicava un modo unico e particolare non solo di osservare la vita, ma di viverla.
Vorrei condividere con voi alcune riflessioni fatte di recente nel rileggere ''Se questo è un uomo'', il primo libro di Levi, in cui racconta dei quasi dodici mesi trascorsi nel campo di sterminio di Auschwitz. Si potrebbe parlare ore e giorni di quest'opera, del turbamento che suscita nel lettore proprio a causa dello stile sobrio e limpido dello scrittore anche quando descrive gli orrori più terribili mai patiti da esseri umani, il processo di distruzione e della perdita di ogni sembianza umana non solo da parte dei nazisti e dei loro sottoposti ma anche delle vittime. Ma poiché il tempo non basterebbe, ho scelto di parlare dell'unico, cruciale, contatto umano, che Levi ebbe ad Auschwitz con un uomo di nome Lorenzo.
"La storia della mia relazione con Lorenzo", scrive Primo Levi, "è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota.
In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso".
E prosegue Levi:
"Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l'effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? Per loro noi siamo Kazett, neutro singolare". Leggo la descrizione di Primo Levi su come le guardie, i Kapos e i civili vedevano i detenuti ebrei, e su come il semplice operaio Lorenzo vedeva lui, e penso a quanto è grande la forza dello sguardo, a quanto è cruciale il modo in cui osserviamo una persona. Una persona che potrebbe essere il nostro partner, un nostro figlio, un collega, un vicino, chiunque abbia una certa rilevanza nella nostra vita e, naturalmente, anche un perfetto sconosciuto, e talvolta persino un nemico.
Un semplice operaio italiano di nome Lorenzo guardò Primo Levi come si guarda un uomo. Si rifiutò di ignorare la sua umanità, di collaborare con coloro che la volevano cancellare e, così facendo, gli salvò la vita, niente di meno. Quanto semplice e grande fu quel suo comportamento.
Penso alla forza di uno sguardo benevolo nella vita di una persona. Non solo nelle circostanze di follia estrema di Auschwitz ma nella vita normale, di tutti i giorni [...]
Ho l'impressione che chi ha il privilegio di avere un testimone amorevole nella propria vita, o anche "solo" un testimone che cerca il bene dentro di noi per farlo emergere, ha buone possibilità di diventare una persona migliore, forse anche un po' più felice. Se abbiamo il privilegio di avere qualcuno nella nostra vita che ci guarda con occhi pieni d'amore ecco che quello sguardo ci dice che forse in noi c'è qualcosa di meglio di quel che pensavamo. Di quel che osavamo credere."

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